I sogni di Giorgio Pinardi

Recensione di Girolamo De Simone

Il panorama delle musiche contemporanee è abbastanza avaro di iniziative originali, e quando mi giunge un disco come questo, non è davvero possibile ignorarlo. Giorgio Pinardi in “MeVsMyself Mictlàn” inanella otto tracce vocali, con sovrapposizioni a cappella, cioè senza l’aggiunta di altri strumenti, solo intervenendo con minimale elettronica (non ho scritto elettronica minimal) per creare la texture dei brani. S’indaga il mondo del ‘sogno’, e la cultura aborigena ne è esempio attraverso le attività di Alterjinga, associazione culturale che si dedica al canto armonico e che figura quale produttore esecutivo del cd. Ma non solo la curiosità del gioco vocale – più o meno ‘manipolato’ – può accattivare all’ascolto e all’acquisto, quanto la cifra compositiva in senso proprio; e, naturalmente, il senso che spinge oltre: la direzione della musica, che va verso l’ammirazione e la rilettura di musiche altre, come a me par di cogliere, anche per tecniche di composizione (come non pensare a cori polimetrici arcaici, riletti tuttavia, come accade in ‘Gurfa’ attraverso improvvise accelerazioni e rallentamenti o richiami a formule del canto popolare – incipit di ‘Tin Hinan’).

Un fil rouge tiene insieme la struttura del disco, a partire dalle acque di ‘Khnum’ (acque che scorrono, pioggia, ma anche fiume, scorrimento, ripartenza), nesso non solo garantito dal collante timbrico della voce di Giorgio Pinardi, ma pure, come già segnalato, dalla cifra stilistica e dai richiami tematici, quasi si trattasse di un’unica composizione con più articolazioni. Un gioco che scorre fluidamente di traccia in traccia, e che se talvolta s’avvale di formule armoniche dalla struttura riconoscibile, si arricchisce di senso in richiami concettuali a culture che potrei dichiarare tolteche o sciamaniche (come in ‘Mbuki-Mvuki’), e se non posso giurarlo, mi par di cogliere anche microvariazioni d’intonazione. Un passo ulteriore, forse, potrebbe avvenire rinunciando del tutto a riferimenti funzionali dell’armonia tradizionale, e procedendo con l’esplorazione di sistemi accordali derivanti da scale non temperate, o addirittura microtonali. Ciò comporterebbe il piccolo passo in più verso un virtuosismo vocale che è tuttavia già presente nell’opera di Pinardi, e sono propenso a credere che potrebbe essere una direzione proficua e densa di sorprese.

In ‘Sygyzy’ il percorso promana da sospiri e aspirazioni, e s’allarga alla sperimentazione polifonica, anche con glissati e un uso elettronico della voce non distante dalle tecniche usate negli anni Settanta dai compositori di scrittura e d’improvvisazione. Importante è anche sottolineare che l’espediente, la trovata, la sorpresa, in queste tracce di Pinardi non pare fine a se stessa. Anzi! un attimo dopo aver ricevuto in dono la meraviglia di una soluzione, di una via d’uscita dalla reiterazione di una frase, ciò ch’egli realizza compositivamente appare come un ‘dovuto’ come una soluzione assolutamente razionale, giusta, naturale. Non sento una forzatura che non sia giustificata dall’uso ‘in sé’ dei materiali. L’incipit di ciascun brano è spesso formula anche semplice. Ma in pochi secondi si viene catturati dal ludus vocalis (che auspico appunto divenir anche ludus microtonalis…, per fare il verso al celebre lavoro di Hindemith).

Non amo più, nelle riflessioni sulla musica di questo livello, far riferimento ad altri compositori, e qui mi permetto di farlo solo perché in una prima occasione d’ascolto avevo immediatamente collegato a John Zorn a al filone del cosiddetto ‘plagiarismo’ (ignoto ai più) un brano/collage di Pinardi, peraltro dicendoglielo. Devo, qui, rettificare. Il gioco delle successioni, come già detto, trova la sua meraviglia nella forza propulsiva, generativa dei materiali. Non nella sorpresa ‘destrutturante’ antidiscorsiva, citazionista come avviene in Zorn e altri plunderfonici. In ‘Ohrwurm’, brano da me prediletto, l’avvio tiene conto del canto liturgico arcaico (che – non dimentichiamolo – è siriano), al di là delle formule linguistiche adottate. Il pezzo va poi a finire altrove, in doppie voci anche qui con minuscoli pitch d’intonazione (territorio molto interessante). Addirittura, penserei a un contrappunto di glissati vocali: e lancio l’idea a chi avrà la pazienza e la voglia di volerla esplorare. Il disco si chiude con ‘Eostre’, dove appare una modulazione vocale d’infanti – per la prima volta, credo, nel disco: quasi un proiettarsi al futuro, a ciò che i giovani potranno sognare e realizzare, magari a partire da qui, da un linguaggio polisegnico, che sembra destrutturato, poi formula magica che ci lancia in una dimensione solo apparentemente lontana dal reale, ma capace invece di trasformarlo.

La copertina del disco di Giorgio Pinardi (Alterjinga)