Recensione di Girolamo De Simone
Ogni disco di Cesare Picco racconta una storia, o se preferite un mondo.
The last gate (Decca 0602438672851), il suo ultimo lavoro, è una chiamata all’attraversamento. “Siediti e ascolta” – suggerisce nelle note – “c’è una voce che arriva dall’altra sponda, oltre il fiume. Ha il suono di alberi e di vento, ci chiede di attraversare”. Il suono è vita, il suono è cura, a patto che ci si decida, che si abbia il coraggio di scegliere, perché “non c’è più tempo”.
Questo viaggio nel suono non va però inteso come semplice narrazione, ma come ricerca di un ambiente, di una parentesi d’accoglienza, di un istante di rutilante riflessione. Come se entrando nel suono si ottenesse quello sguardo così caro a Chandra Candiani [che ci ha appena donato per Einaudi le sue conversazioni con alberi, animali e il cuore umano: Questo immenso non sapere], il quale solo ci consente di vedere tutto il mondo, osservando i particolari armonici della natura. Così, quando il disco di Cesare Picco comincia a girare, si percepisce un rallentamento del tempo, e raccogliamo in un primo istante un senso di singolarità, attraverso la percezione del suono-in-quanto-tale, suono non discorsivo, non retorico; e poi, nell’istante più duraturo che segue, il senso aggiunto della profonda sintesi che relaziona quel particolare al resto del mondo. È un suono fiore, un suono corteccia, un suono stelo. Per la precisione, quel nuovo sguardo ci proietta in un tutto-mondo che vuole attenzione. Un mondo fiume. Quest’agire, questo sentire, ci ha spinto, ecco, all’attraversamento.
Centrale è il Suono. Non il linguaggio codificato che chiamiamo ‘musica’, e che assorbe le convenzione dei tempi e delle geografie. Non possiamo pretendere, più, che esista una primazia della musica codificata (tonale, occidentale, ma anche etnica). La sincerità del gesto di un compositore è in direzione del suono-in-comune: “Le musiche sono come le lingue… se non le conosco non le capisco”. Da qui, venne la grande bugia della critica adorniana, e soprattutto post-viennese: che il pubblico dovesse compiere lo sforzo di ‘arrivare’ a un sistema considerato più evoluto, migliore, e quindi centrale. Il pubblico avrebbe dovuto studiare e accedere all’evoluzione del linguaggio occidentale, temperato. È stata la bugia che ha prodotto lustri di isolamento del nostro fare. Cesare aggiunge, in una intervista recentemente pubblicata: “immaginiamoci di fronte ad un rituale aborigeno in Australia: quali chiavi abbiamo per comprenderlo? Il suono è una grandissima coscienza di cui sono dotati molti popoli. Ecco perché cerco di non agire secondo i canoni del musicista occidentale. Sono figlio di questa parte di mondo musicale, e sono cresciuto con il sistema temperato, ma penso si possano compiere passi laterali molto ampi per capire che la musica non è solo questa” (Musica, n. 330, ottobre 2021).
L’assunto di Cesare Picco, la provenienza dal sistema temperato, che è solo uno dei modi per accordare gli strumenti, e copre soltanto la produzione occidentale dopo Bach (tanto per semplificare una questione storicamente assai complessa), ci racconta qualcosa della sua musica e della sua posizione. Come inquadrarlo? semplice: non bisogna nemmeno provarci! Non occorre inscatolare il gesto personale di chi oggi dona suoni ulteriori al nostro tempo sfibrato. Questa musica è qualcosa di assolutamente nuovo, e non andrebbe collocata nel filone del ‘revival’ di questa o quella corrente della musica occidentale, né – assumendo la prassi concertistica di Cesare Picco, che mette al centro l’improvvisazione – delle variabili più avanzate del jazz o di altre modalità estemporanee di produzione. Un disco come The last gate, a mio avviso, non merita ‘riduzioni’ o sconti d’intrapresa critica. Non prescinde da uno studio evoluto delle forme musicali. Anzi, parte dal presupposto che esista una nuova forma di avanguardia aperta, che già ha innovato, e purtroppo fatica e trasformare anche le prassi concertistiche. Questi ‘modi’ del produrre potrebbero portarci a una visione aumentata e comunitaria della musica, laddove quest’ultima si mostri in grado di assumere la centralità del suono, e si renda capace di volgere lo sguardo ad altro da sé: facendosi cioè carico di un messaggio, un senso che trasferisca chi la fa e chi la ascolta in dimensioni consapevoli della necessità di una ‘spoliazione’. In mondi (come alludevo all’inizio di questa riflessione) nuovi.
La percezione di un tempo d’esecuzione, di una particolare ‘caduta’ in levare, quasi rallentata, dei suoni è presente in tanta musica di Cesare Picco, e la si coglie in The last gate con grande chiarezza. Un disco dedicato alla Natura, alla necessità di un cambiamento ormai ineludibile.
La scelta dei timbri, perciò, non è casuale. Il pianoforte, che è lo strumento principale in questo lavoro, non mi pare voglia mai farsi protagonista, con il lessico abituale, un po’ retorico, che questo strumento (e che è poi elettivamente anche il mio strumento) rischia di assumere, al confronto con tanti repertori stratificati e impolverati/impoveriti dal sentire colto. Al contrario, il timbro scelto non si fa discorso, sceglie di essere sfondo.
Nel disco c’è poi, naturaliter, l’apporto dell’elettronica e quello del violoncellista Leonardo Sapere, il quale non è affatto secondo per il contributo eccellente che offre alla poetica di tutto il lavoro.
(Girolamo De Simone)