CONFUTATIO

CONFUTATIO
PER UNA POLIFONIA DELL’ AVANGUARDIA

di Girolamo De Simone

In luoghi poco ameni siamo costantemente chiamati a confutare tesi sulla definizione delle avanguardie musicali, sulle caratteristiche dei musicisti d’avanguardia e sulla loro presenza sui territori. 
È purtroppo una battaglia teorica che si conduce da molti decenni, e che motivò la nascita di una rivista scientifica, ma d’avanguardia, denominata “Konsequenz”, consacrata ai plurali delle musiche contemporanee. Ancora oggi è purtroppo necessario intervenire a rettificare, fornire dati, mostrare cosa siano state, nella realtà anche territoriale (non ‘locale’, ad evitare ‘localismi’ e ulteriori accuse di marginalità) le avanguardie, se ci siano ancora e se producano storie e musiche valide e dialoganti col resto di quanto accade o accaduto nel mondo. 
Stavolta, però, non scelgo la strada del saggio, né quella dell’invettiva, per tentare una comunicazione più diretta, meno formale.

TESI

Le avanguardie sarebbero un fenomeno colto, erudito. Per questa ragione userebbero un linguaggio complesso.

CONFUTATIO

Per definizione, l’avanguardia sperimenta ciò che è nuovo. Lo fa da avamposti non classificabili, almeno all’inizio del suo dire. Ora, ciò che è nuovo non assume un lessico già assimilato. Il nuovo non viene accolto con serenità da chi usa formule già codificate, accettate, comuni. Esso non proviene, perciò, dalle accademie, e non viene accolto dai teatri. Non viene accettato da chi siede nelle scuole di musica, o perlomeno non viene integrato, istituzionalizzato. Quando ciò avviene, è troppo tardi sia per i musicisti avant che per le loro intuizioni. Le composizioni di avanguardia non ‘entrano’ dalla porta principale. Anzi, i compositori che tentano parole e costrutti linguistici (profilo, quest’ultimo, molto importante) inediti o non convenzionali, vengono tenuti fuori fino a che o qualcuno di essi penetra nell’accademia per caso o evenienza (e in questo caso deve ammorbidire il suo costrutto) o, cosa assai più frequente e grave, fino a che un accademico già inserito nell’istituzione non si appropri della novità, in tal modo dissinnescandola, adeguandola, piegandola per farla accettare da una comunità per sua natura restia ad accogliere tutto ciò che davvero è nuovo, tutto ciò che metterebbe in discussione il prestigio acquisito, il linguaggio già accettato e fino a quel momento adottato, approvato, considerato convenzionalmente non pericoloso per il mantenimento di uno status quo statuito e irrinunciabile (con ricadute di un potere d’azione su allievi, produzioni teatrali, pubblicazioni, e soprattutto di continuità sulle cattedre). 
L’accademia, dunque, è storicamente e logicamente nemica delle avanguardie.
Per questa ragione, essa ha divulgato una menzogna: che necessariamente il linguaggio innovativo dovesse essere di natura colta, e dovesse essere visto quale sviluppo, in termini di sola complessità, del nuovo; che fosse dunque necessaria una particolare erudizione per produrre avanguardia (una erudizione fornita, in singolare conflitto d’interessi, dalla medesima accademia).

TESI

Le avanguardie non esistono più.

CONFUTATIO

L’idea di avanguardia è prospettica. Essa assume sfumature differenti a seconda del periodo storico e del ‘terreno’ sociale e comunitario.
Dipende dal momento storico perché l’avanguardia può avere connotati rivoluzionari o reazionari; innovare i costrutti o i materiali; essere nazionalista o esterofila; etc.
Ma dipende anche dal terreno sociale, perché essa potrà essere consequenziale oppure emergenziale, cioè essere accettata (e finanziata) come fluido rinnovamento del tutto naturale, oppure combattuta e risultare il frutto di una strategia degli artisti. Una strategia di emergenza clandestina (ad esempio durante una dittatura militare o religiosa); una di lenta emersione; o una emergenza eruttiva e selvaggia: si pensi alle cosiddette ‘singolarità selvagge’ di Foucault, la cui forza è tale da traforare e attraversare le pieghe del comunitario e conquistare visibilità, attivare trasformazioni sociali, essere veicolo di reali cambiamenti del tessuto. Per questo motivo è stata dimostrata la pervasività e l’efficacia della musica (le canzoni di protesta) quale connettore e amplificatore di istanze comuni e come formidabile ariete di cambiamento. La musica tout court e le arti già assimilate non avrebbero una potenzialità simile senza le avanguardie, senza la forza propulsiva che spinga al nuovo. Si ribadisce: tale ‘nuovo’ può assumere anche caratteristiche restaurative, ma sempre se ne percepirà una novità, come la storia dell’arte ha dimostrato, in relazione all’epoca storica differente, e alla diversa ricezione che anche un costrutto già udito può scatenare in ragione di una sua particolare collocazione linguistica. Una medesima frase potrà essere innovativa anche a cento anni di distanza, perché calata in tessuto e geografie completamente differenti da quando essa fu pronunciata la prima volta. Assumere, cioè, un significato totalmente nuovo, delocalizzante, generare uno spaesamento, una deterritorializzazione, foss’anche momentanea.

TESI

Le avanguardie sono moda, e passano velocemente.

CONFUTATIO

Le avanguardie si muovono con la stessa logica della rivolta tra padri e figli, della lotta fra generazioni. Sarà avanguardia clandestina, lenta o eruttiva; oppure potrà mescolare tipi e specie differenti di reazione, intensità differenti, quantità estensive cangianti in relazione ai territori, al retaggio culturale dei diversi paesi, alle situazioni geopolitiche. Uno o più movimenti potranno affermarsi, oppure, in epoca di moltiplicazione quale quella che stiamo vivendo, potranno convivere e sovrapporsi in differenti costrutti linguistici, contesti, forme, modalità, diventando – anche rapidamente – moda, oppure subendo una assimilazione che ne disinnescherà il potenziale innovativo. La pluralità tipica del nostro mondo, e la velocità delle idee, non implicano tuttavia che la potenzialità dei nuovi costrutti venga azzerata, o che le avanguardie non possano svolgere un ruolo politico, laddove questa parola assuma ovviamente il respiro e l’ampiezza che merita.

TESI

Se le avanguardie sono moda, ciò che conta è la conoscenza e la padronanza dei linguaggi e dei codici assimilati (quelli statuiti dei manuali).

CONFUTATIO

Ciò che è passeggero rischia di restare senza valore e, quindi, senza storia. Per questa ragione, le avanguardie hanno necessità di sapere cosa combattono, e in genere lo sanno fin troppo bene, perché combattono ciò che le esclude. La lotta delle avanguardie è il sale della cultura che si fa storia: l’essenzialità del nuovo è ciò che crea movimento, cioè vita. La stagnazione dello status quo, l’annidarsi dei codici linguistici già assimilati provoca invece una afasia della creatività. Le opere in tal caso replicano solo formule accettate, con similarità melodica e ritmica che ripercorre un genere codificato, il quale presto suona stantio, genera paludi immaginative, azzera il respiro degli artisti e dei giovani, soffoca vocazioni.
Pertanto, le avanguardie conoscono bene la storia dalla quale vengono; e se non la conoscono, vengono presto svuotate di senso, perché si limiterebbero ad imitare ciò che è troppo vicino a loro nel tempo, e questa ripetizione non avrebbe alcuna forza propulsiva, restando priva di qualsiasi vitalità o necessità.
Una avanguardia senza memoria, o con la memoria corta, non avrebbe ragione di essere.

TESI

I codici già assimilati avrebbero una valenza oggettiva.

CONFUTATIO

I codici non hanno mai una valenza oggettiva, ma una valenza convenzionale. Comprendere questo, mettendo a confronto i differenti trattati della storia, è fondamentale. È un’operazione che è stata fatta da Giuseppe Chiari, il quale ha riprodotto in anastatico in un unico volume alcune delle pagine più famose dei trattati storici. Le regole cambiavano sempre, anche quelle considerate immutabili. E, con la fluidità necessaria (Chiari era uno degli esponenti del gruppo Fluxus), le regole possono ritornare, una o l’altra, ed essere riutilizzate con modalità ludica, citazionistica, o con ridondanze di senso aggiunto (senso che si aggiunge foss’anche per la semplice delocalizzazione temporale o spaziale di quelle formule).

TESI

I linguaggi dell’avanguardia sarebbero identificabili e riconducibili a un preciso contesto: questo o quel gruppo, in questo o quel luogo.

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Si sente talora dire che l’avanguardia si sarebbe fermata in un certo momento, legandosi a un preciso gruppo di musicisti, a un preciso luogo, a una ‘scuola’. Ad esempio, che lo sperimentalismo sia stato legato al Nord del nostro paese. Come se non ci fossero uomini del meridione che sono andati a portare là un contributo, o come se al Sud non fosse – nel frattempo – accaduto nulla. Ciò non corrisponde al vero.
Alcune idee che hanno motivato le avanguardie ormai assimilate (e pertanto oggi ampiamente disinnescate) sono nate al Sud. Basta leggere Benjamin (Napoli, di Walter Benjamin e Asja Lacis, ora in Napoli porosa, Dante & Descartes, Napoli 2021) o Martin Mittelmeier (Adorno a Napoli, Feltrinelli, Milano 2019) per averne conferma.

TESI

Le avanguardie dovrebbero mantenere uno sviluppo lineare dei linguaggi.

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L’idea che i linguaggi (e il lessico che li forma) debbano mantenere uno sviluppo lineare per poter ricevere il crisma dell’avanguardia è una colossale sciocchezza. I costrutti possono arricchirsi muovendosi in qualsiasi direzione dello spazio e del tempo. Essi sono rizomatici, cioè si sviluppano come radici, in modo imprevedibile e in direzioni ignote, oppure sono come fili d’erba esposti al vento; o, ancora, seguono logiche insondabili e complesse (come lo sviluppo della fisica sta dimostrando: Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Milano Adelphi 2021). Lo sviluppo auspicato dalle tesi conservative è, nello specifico, quello delle avanguardie storiche, legate al cosiddetto sperimentalismo. Conduce a considerare ‘vera’ la sola avanguardia proveniente da una scuola in particolare, e il solo linguaggio da essa adottato. È la logica conseguenza delle teorie di Adorno, che combatté Stravinskij e amò Schönberg; o di Bortolotto, che scrisse inesattezze su Nono, ignorò Scelsi, e santificò altri.

Ma, a partire dal 1972, Cornelius Cardew aveva già individuato la retorica di quelle avanguardie ‘storiche’, che ormai erano diventate già moda, e scriveva queste parole: “mi rendo conto adesso di essere caduto nel tacito sottinteso che l’avanguardia borghese fosse un’ ‘avanguardia’ in qualche senso, che fosse ‘avanzata’. Non è vero: è arretrata. Questo è l’aspetto principale. Sulla questione del ruolo d’avanguardia che i compositori d’avanguardia possono avere nella lotta di classe, sarebbe stato più giusto parlare non delle ‘nostre idee’ e della ‘nostra musica’, ma delle idee e della musica della classe operaia militante ed incoraggiare i compositori e gli altri a mettere il loro potenziale al servizio di quella classe” (Cornelius Cardew, Stockhausen al servizio dell’imperialismo, Edizioni di cultura popolare, Milano 1976). Sempre nel 1972, Paolo Castaldi pubblicava “In nome del padre” per riabilitare lo Stravinskij ‘pluralistico’ negli stili e negli ‘ordini’ compositivi contro le tesi di Adorno (originariamente ne “Lo spettatore musicale”,  1972, oggi reperibile in volume: In nome del padre. Riflessione su Strawinsky, Adelphi, Milano 2005).
Quel cambiamento prospettico fu intercettato a Napoli da una delle sensibilità più acute del territorio, Luciano Cilio, che in un’intervista pubblicata su Paese Sera dichiarava che la vera avanguardia deve certo avere coscienza storica, ma deve anche evitare di essere un’avanguardia “accademica, di maniera”, colpendo, con le due qualifiche, sia le accademie conservative che i cosiddetti compositori sperimentalistici, che di astruserie linguistiche avevano fatto abuso al punto da causare un allontanamento del pubblico e l’accusa di malafede: “John Cage è stato grande trent’anni fa. Berio, Nono ed altri rappresentano l’avanguardia storica dietro cui, purtroppo, si sono messi in fila gruppi di imitatori… È una avanguardia accademica… che non svolge alcun ruolo storico ed è origine di confusioni e di ambiguità” (In “Avanguardia? Sì, ma con la coscienza storica. Tre brani del giovane compositore napoletano eseguiti nei locali della Modern Art Agency”. Intervista di Lucio Seneca a Luciano Cilio, Paese Sera, 22 ottobre 1979, n. 285).
Eppure, quel linguaggio astruso era ‘entrato’ e apriva le porte in rassegne (più o meno ormai carbonare) e in scuole di musica. 
Lo sperimentalismo era stato assimilato.

TESI

A Napoli non vi fu nulla dopo il Settecento, eccetto singole esperienze compositive locali o marginali.

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La musica a Napoli, a partire dalla straordinaria effusività del cosiddetto Settecento napoletano, conobbe invece una sostanziale continuità generazionale. Che fortunatamente giunge fino ai giorni nostri, e che qui è solo parzialissima ricostruzione:

Costantino Palumbo (1843 – 1928)
Beniamino Cesi (1845 – 1907)
Alfonso Rendano (1853 – 1931)
Michele Esposito (1855 – 1929)
Giuseppe Martucci (1856 – 1909)
Florestano Rossomandi (1857 – 1933)
Francesco Cilea (1866 – 1950)
Umberto Giordano (1867 – 1948)
Alfredo D’Ambrosio (1871 – 1914)
Alessandro Longo (1864 – 1945)
Emilia Gubitosi (1887 – 1972)
Achille Longo (1900 – 1954)
Mario Pilati (1903 – 1938)
Terenzio Gargiulo (1903 – 1972)
Aladino Di Martino (1908 – 1989)
Franco Di Lorenzo (1923 – 2003)
Francesco D’Avalos (1930 – 2014)
Guido Baggiani (1932 – 2018)
Antonio De Santis (1936 – 2020)
Luciano Cilio (1950 – 1983)
Enrico Renna (1952)
Eugenio Fels (1953)
Sergio Rendine (1954)
Gabriele Montagano (1960)
Girolamo De Simone (1964)
Max Fuschetto (1969)
Lorenzo Pone (1991)

Tra questi nomi vi sono sia compositori che hanno “fatto scuola”, sia autori che hanno innovato i costrutti, non necessariamente in modo reazionario. Alcuni di essi interagirono con le avanguardie più note e affermate nei diversi periodi storici di riferimento, altri invece costituirono quel filo di resistenza alla speculazione linguistica già attaccata negli anni Settanta a Roma da Cardew, a Milano da Castaldi e a Napoli da Cilio. Cosa era vera avanguardia? Evidentemente, alcune linee si sovrapponevano, altre si nascondevano con andamento rizomatico, ma tutte avevano la medesima dignità estetica, eccetto i casi di malafede.
La linea che portò ad altre acquisizioni, ad una nuova idea di ‘avanguardia’, aperta a una profonda intenzionalità di contenuti, intuitivamente esploratrice di nuove forme e impasti sonori mutuati in parte dalla nascita dell’elettronica, ma consapevole e progettuale, partì a mio avviso con Luciano Cilio. Nel 1977 la EMI pubblicava i suoi Dialoghi del presente, vinile che veniva recensito in tutto il Paese come qualcosa di profondamente innovativo, un mix tra mediterraneità e mitteleuropa. Ancora oggi quel disco conosce ristampe e ha varcato i confini europei con una straordinaria (e tardiva) ricezione in America e Giappone. 
Nel 1979 avveniva la fondazione del gruppo AC.EL. in seno al dipartimento di fisica dell’Università di Napoli, ad opera di Giuseppe di Giugno e di Antonio De Santis. Il secondo, soprattutto, molisano trapiantato a Napoli, fu uno dei pionieri della musica elettronica riconosciuto e ammirato anche da Luigi Nono. Il gruppo dialogò con Razzi, Lupone, Cocco, vale a dire con le altre realtà pionieristiche dell’elettronica italiana (è appena il caso di segnalare che il discorso sulla musica elettronica, e sulla iniziale condivisione di idee che generò poi la cosiddetta “etica hacker” teorizzata tra gli altri da Pekka Himanen (Feltrinelli, Milano 2001),  fu caso a parte nel tentativo di assimilazione da parte delle accademie e università del movimento più avanzato di ‘quella’ avanguardia musicale: la necessità di mettere in comune linguaggi informatici e macchine in ‘quel’ momento poco reperibili rallentò l’addomesticamento della produzione elettronica, e ancor oggi se ne sente l’effetto e la maggior pulizia persino in seno alle accademie). 
Nel 1981 Cilio organizzava quattro giornate a Villa Pignatelli: “Avanguardia e Ricerca musicale a Napoli negli anni ’70” (con De Santis, Piemontese, Columbro). Gianni Cesarini, critico musicale del primo quotidiano della città, scriveva sul programma-catalogo di quell’evento (vero evento, non fittizio come gli attuali, perché in grado di scatenare molteplici reazioni e coinvolgimento in più settori della vita culturale cittadina): “Esistono qui esperienze d’avanguardia che colmano un vuoto culturale e proiettano Napoli in un contesto europeo”. Nel 1982, gli “Incontri nazionali della nuova musica”, voluti da Cilio sempre a Villa Pignatelli, per il Comune di Napoli, ampliano il panorama: Cilio, Fels, l’autore di questa nota, Columbro, De Santis, Renna, dialogano implicitamente con altri compositori ‘nazionali’ di provenienza ‘sperimentalistica’ (con l’apertura, appunto, verso ciò ch’era già storicizzato, forse suo malgrado): Castiglioni, Berio, Sciarrino.

Cilio appare ben consapevole dell’operazione che sta conducendo, e procede contestualmente sia al rinnovamento delle avanguardie che alla critica contro la rivisitazione folk che in quegli anni risultava – a Napoli – particolarmente soffocante (per inciso, l’affondo era rivolto a chi, in quegli anni, pur provenendo dal mondo della musica colta, tale ‘rivisitazione’ promuoveva…): “Quel che adesso mi sembra fondamentale ribadire e aver necessariamente chiaro è che l’aver creduto di superare e lasciato alle spalle le tammurriate e l’opera buffa non apre immediatamente e meccanicamente l’accesso alle questioni o ai temi relativi alla cultura contemporanea europea (peraltro anch’essa bisognosa di una qualche rinascita) solo perché proposti in una città vittima fino a due ore prima del più selvaggio delirio di mistificazione e di manipolazione popular-folkloristica” (Luciano Cilio, “C’è una strada nel sottobosco…”, Il dibattito dell’Estate a Napoli, Il Mattino del 9 agosto 1982).

Dopo aver interagito con le principali realtà cittadine, con concerti per Peppe Morra, Lucio Amelio, interviste radiofoniche e televisive, con articoli e interviste su quotidiani locali e nazionali, dibattiti pubblici, rassegne, purtroppo nel maggio del 1983 Luciano Cilio scompare, drammaticamente e prematuramente. La prima commemorazione musicale avviene subito, a giugno di quell’anno, ad opera del Gruppo Ricerca e Sperimentazione, con le liriche di Lello Voce e l’improvvisazione di chi scrive, sui temi di Luciano, all’organo di uno dei Santuari domenicani più importanti del meridione e dell’hinterland partenopeo, quello di Madonna dell’Arco. 
Ciò non arresta l’apertura: nel 1985 al Teatro San Ferdinando giunge John Cage, che sonorizza la danza di Merce Cunningham, sotto il patrocinio della Croce Rossa Italiana. Sempre nel 1985 si terranno nei luoghi d’arte della Chiesa di Santa Chiara i concerti della neonata associazione Ferenc Liszt, durante i quali si riporta in concerto la pratica dell’improvvisazione pianistica, nell’alveo di una proposta che affianca autori di notazione, contemporanei e non (quindi non solo improvvisazione aleatoria, come praticata altrove, ma improvvisazione integrata anche lessicalmente in un progetto/programma). Tra gli autori, Franco di Lorenzo, Eugenio Fels, Giusto Pappacena e altri. Nel 1992/93 l’Istituto francese di Napoli, con Digne e Schifano ospita lavori di Eugenio Fels, Montagano, e miei, collegandosi, nell’ottica della contaminazione tra le arti, al gruppo napoletano “Virus” (Dino Izzo, Giancarlo Savino e Carla Viparelli), che aveva affermato in città la pratica degli “Studi aperti”: artisti internazionali in esposizioni ‘demuseificate’, cioè aperte a un pubblico numerosissimo che transitava tra piazze, cortili e, appunto, studi. 

Nel 1994, nascerà Konsequenz, rivista di musiche contemporanee dedicata ai plurali in musica. Alla mia iniziativa aderiranno subito Giuseppe Chiari, Giancarlo Cardini e Daniele Lombardi: il mondo musicale fiorentino delle avanguardie si legava a quello napoletano. Ma anche Paolo Castaldi, Pietro Grossi, Enore Zaffiri e altri compositori e filosofi (tra cui Manlio Sgalambro, autore di quella Teoria della canzone che avrebbe fatto storia, edita da Bompiani, Milano 1997), provenienti da contesti differenti, anche europei, daranno nel tempo un fondamentale contributo alla rivista, che ancor oggi esiste quale editrice di dischi e volumi (www.incantesimodellasoglia.com sito e archivio, dove possono reperirsi i sommari della rivista, i singoli numeri in formato scaricabile, i nomi degli autori presenti sui dischi e le pubblicazioni più recenti. Tra questi: Antonello Neri, Vito Ranucci, Max Fuschetto, Enzo Amato, Gianni Banni, Alessandro Petrosino, Enrico Renna, Tiziano Citro, Pasquale Mosca, Romina Daniele e molti altri interpreti e compositori che qui non è possibile menzionare). 

Nel 1996 esce il volume monografico di Konsequenz L’altra avanguardia, piccola storia della musica contemporanea a Napoli (G. De Simone, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996). A partire dal 1997, poi, si susseguiranno i concerti di Musica Millemondi, Eclettica, Avant, programmati da Konsequenz, dal Teatro Galleria Toledo (Laura Angiulli e Rosario Squillace) e dal Sancarluccio (vecchia gestione di Franco Nico, Pina Cipriani, Egidio Mastrominico). Centinaia di compositori legati all’emergenza territoriale e provenienti dalle più diverse esperienze nazionali e internazionali vengono ospitati in decine di cartelloni, che si susseguiranno fino al 2020, nonostante le chiusure imposte da provvedimenti illiberali e forse incostituzionali [per inciso, non per partigianeria si tace, in questa ‘Confutatio’, di altre esperienze che esularono dal discorso sulle avanguardie ‘plurali’, preferendo dedicarsi alla ‘conservazione’ delle sole esperienze già consolidate, quindi inessenziali al progetto innovativo delle nuove idee che nascevano; tali esperienze sono però raccontate nel volume monografico L’altra avanguardia, n. 1/1996. Voglio però inserire un ‘segnalatore stradale’: l’11 giugno 1959, con l’esecuzione a Napoli di uno dei primi brani di musica elettronica realizzati in Italia: Musica a due dimensioni di Bruno Maderna (1952), dove elettronica su nastro e l’acustica del flauto vengono combinate].

Non si può non citare, qui, Musicamotus di Paolo Uva che, attraverso lo straordinario veicolo dei Festival intitolato “Angeli Musicanti”, attiverà una serie di sinergie con i nuovi linguaggi della contaminazione internazionale, che culmineranno con la presenza a Napoli di Brian Eno, Keith Jarrett, e con la celebrazione del cinquantesimo anniversario della storica etichetta ECM di Manfred Eicher. È inoltre necessario menzionare lo straordinario lavoro di Peppe Morra, della Fondazione e del Museo a lui collegati, tensione cittadina in direzione di un dialogo internazionale (si pensi solo alla presenza di Hermann Nitsch, non solo artistica ma complessivamente aperta all’interezza della sua produzione anche teorica e musicale).

Oggi, alcuni dei compositori menzionati, come Lorenzo Pone (che è anche pianista di levatura internazionale), operano prevalentemente all’estero. Pone, dalla casa di Mozart a Salisburgo, ha suonato, tra le altre, musiche di Gabriele Montagano, sé stesso e di chi scrive. Altri giovani, quali interpreti, si fanno largo: Andrea Riccio, realtà del pianismo e musicista raffinato, ha nelle mani la musica di Luciano Cilio, e ne fa nuove tessiture in luoghi prestigiosi.

CONCLUSIONE

I musicisti, quindi, ci sono stati e ci sono; molti hanno pronunciato parole d’avanguardia, spesso ignorati o non supportati dalle istituzioni. E sono, tuttavia, magmaticamente presenti. Alcuni di questi nostri percorsi sono stati sdoganati; altri, sdoganati solo in parte. Ma, nonostante le pandemie e le vigenti e inique illiberalità, le avanguardie ci sono; premono con urgenza, e a partire da ferite ancora aperte. Tutto ciò è dato storico.

da sinistra: Daniele Lombardi, Enrico Cocco, Girolamo De Simone, Giuseppe Di Giugno (Novembre 2006. Ph. Filomena Piccolo)
Alcuni dei compositori presenti in “Approdi” (Konsequenz). Ph. Pietro Previti. Il dettaglio con TUTTE le presenze autorali (compositori ed interpreti), impossibili da riportare qui, sono su www.incantesimodellasoglia.com
Andrea Riccio, Girolamo De Simone e Lorenzo Pone, al termine di una session di registrazioni dedicate a Luciano Cilio e a Bernardo M. Sannino
Il pianista-compositore Eugenio Fels, durante una performance al Teatro Galleria Toledo di Napoli. Ph. Lavinia D’Elia
1979: Luciano Cilio, in una intervista di Lucio Seneca